Responsabilità degli amministratori nella crisi d’impresa

La responsabilità personale dell’amministratore nelle fasi della crisi 

Responsabilità degli amministratori nella crisi d’impresa: prevenzione, azione tempestiva e gestione conservativa secondo il nuovo Codice

L’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) ha segnato una svolta epocale nella gestione societaria, spostando il baricentro dalla gestione della patologia dell’insolvenza alla prevenzione della crisi. In questo nuovo paradigma, la figura dell’amministratore assume un ruolo ancora più centrale e gravoso, con un conseguente inasprimento dei profili di responsabilità personale legati alla gestione dell’impresa nelle diverse fasi che possono condurre alla crisi. 

La Fase “Pre-Crisi”: il dovere di istituire assetti adeguati 

La principale innovazione introdotta dal legislatore risiede nell’articolo 2086, secondo comma, del Codice Civile. Questa norma impone a ogni imprenditore che opera in forma societaria o collettiva un dovere specifico: “istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale“. 

Questo obbligo non è una mera dichiarazione di intenti. La sua violazione costituisce un inadempimento ai doveri imposti dalla legge agli amministratori, esponendoli a un’azione di responsabilità per mala gestio ai sensi degli articoli 2392 c.c. (per le S.p.A.) e 2476 c.c. (per le S.r.l.). L’amministratore non è più solo il gestore del business, ma anche il primo garante della sua stabilità, tenuto a dotare la società di “sensori” in grado di anticipare i segnali di difficoltà. 

L’omessa istituzione di tali assetti, quindi, rappresenta la prima e fondamentale fonte di responsabilità per l’amministratore, in quanto impedisce alla società di intercettare tempestivamente la crisi. 

La Fase della Crisi Conclamata: il dovere di agire “senza indugio” 

Una volta che gli adeguati assetti hanno rilevato i segnali di crisi o la perdita della continuità aziendale, scatta un secondo, inderogabile dovere per gli amministratori: quello di “attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale“. 

L’inerzia, in questa fase, è colpa grave. L’amministratore che, pur consapevole dello stato di crisi, non intraprende alcuna iniziativa (come la predisposizione di un piano di risanamento, la richiesta di accesso a una procedura di composizione negoziata o a un altro strumento di regolazione della crisi) viola i propri doveri di diligenza e corretta gestione. Tale condotta omissiva lo espone a responsabilità personale per i danni che la società e i creditori sociali subiscono a causa del ritardo nell’affrontare la crisi. Il danno, in questo caso, è spesso rappresentato dall’aggravamento del dissesto che si sarebbe potuto evitare o contenere con un intervento tempestivo. 

La Fase “Post-Scioglimento”: il dovere di gestione conservativa 

Un’ipotesi specifica e particolarmente rischiosa di responsabilità si configura quando si verifica una causa di scioglimento della società, come la perdita del capitale sociale al di sotto del minimo legale (art. 2484, n. 4, c.c.). In tale circostanza, l’articolo 2486 c.c. cristallizza i poteri degli amministratori, i quali “conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale“. 

Da quel momento, è fatto divieto assoluto di intraprendere “nuove operazioni“. Qualsiasi atto gestorio che non sia strettamente finalizzato alla conservazione del patrimonio in vista della liquidazione è illegittimo. Gli amministratori che violano tale precetto sono “personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi“. La giurisprudenza ha chiarito che spetta all’attore (ad esempio, il curatore fallimentare) provare il verificarsi della causa di scioglimento e il compimento di atti gestori successivi; grava invece sugli amministratori convenuti l’onere di dimostrare che tali atti avevano una finalità meramente conservativa e non comportavano l’assunzione di un nuovo rischio d’impresa. 

La Quantificazione del Danno: un criterio presuntivo 

Provare l’inadempimento dell’amministratore non è sufficiente per ottenere un risarcimento. È sempre necessario dimostrare l’esistenza di un danno e il nesso di causalità tra la condotta illecita e il pregiudizio patrimoniale. Tuttavia, proprio per la difficoltà di tale prova nelle situazioni di crisi, il legislatore ha introdotto una fondamentale novità nell’articolo 2486 c.c. 

Il terzo comma di tale articolo stabilisce un criterio presuntivo per la quantificazione del danno da gestione non conservativa: “il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento“. 

Questo criterio, noto come “differenza dei netti patrimoniali“, è stato avallato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, che ne ha confermato l’applicabilità come metodo equitativo per liquidare il danno quando una ricostruzione analitica sia impossibile o eccessivamente complessa.  

In conclusione, il quadro normativo attuale delinea un sistema di responsabilità degli amministratori molto più stringente e articolato rispetto al passato. I doveri di prevenzione, di azione tempestiva e di gestione conservativa non sono più semplici principi di buona amministrazione, ma precisi obblighi di legge, la cui violazione espone l’amministratore a rispondere con il proprio patrimonio personale delle conseguenze negative della crisi d’impresa. 

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